L’uomo che sezionava cadaveri (e risolveva casi)
Eduard Egarter Vigl si racconta: da Ötzi ai fatti eclatanti di cronaca come la truffa della gamba segata, il mostro di Merano e la donna senza testa - L’incredibile caso della gamba segata per truffare l’assicurazione
di Tiziana Buono
Una lunga e brillante carriera a Bolzano, costellata da molteplici incarichi di notevole prestigio all’ospedale centrale, alla Claudiana e per il Tribunale. Tanti i casi, anche celebri, ai quali ha lavorato.
Parliamo dell’anatomopatologo bolzanino Eduard Egarter Vigl, la cui notorietà è imprescindibilmente legata al suo ruolo di consulente presso il Museo Archeologico dell’Alto Adige, dove è conservata la mummia del Similaun.
L’abbiamo intervistato chiedendogli non solo di soffermarsi su Ötzi, ma anche di ripercorrere alcuni episodi criminali che l’hanno visto impegnato in prima linea per la loro risoluzione nonché di pronunciarsi sull’attenzione della collettività per i delitti, su taluni aspetti della sua professione e sul suo rapporto con la morte.
COLLETTIVITÀ E CRIMINI
Dottor Egarter, come valuta le menti degli autori dei reati?
Non mi sono mai soffermato su questo aspetto. È un compito degli psicologi e degli psichiatri criminali. Non esprimo un giudizio su questo. Certo, portiamo le potenzialità criminali dentro di noi. Basta poco per farle diventare attive e affiorare in superficie.
Secondo lei come si accosta la gente ai fatti delittuosi?
Ogni caso di cronaca nera è spettacolare. I mass media ne parlano. La collettività è attratta da questo mondo e manifesta un interesse a volte anche morboso. È lo specchio dell’ambiguità: per un verso le persone sono curiose verso i defunti, dall’altro provano però rigetto e ribrezzo.
Qual è invece il suo approccio ai cadaveri?
Da anatomopatologo ho realizzato diverse autopsie, atti medici finalizzati a scoprire le malattie, la correttezza della diagnosi e della terapia. Si individuano eventuali errori medici, che diventano lo spunto per diventare più bravi e servire al meglio l’umanità. Col tempo ci si abitua al contatto col morto, si sviluppa un certo grado di assuefazione. Mentalmente si fa un passo indietro: non si vede la persona, ma ci si concentra sul quesito da risolvere come in una sorta di indagine poliziesca. Il coinvolgimento psicologico scende così in secondo o terzo piano...
L’articolo completo è disponibile sul numero di marzo di METROpolis – Cultura & Sociale a Bolzano, in vendita in tutte le edicole di Bolzano e in abbonamento.